Avevo partecipato a suo tempo all’incontro con il professor de Bernard, e rimasi colpito dal suo interesse verso temi forse sottovalutati, quali la necessaria empatia nel rapporto docente-studente prima, e in quello medico-paziente poi.
Riguardo al primo, “Il docente deve essere capace di trascinare i suoi allievi:costoro, subendone il fascino, ameranno i concetti trasmessi e li ricorderanno per tutta la vita”. Affermazione sacrosanta se ce n’è una. Nella mia esperienza di studente, la professoressa migliore che ho avuto è stata l'insegnante di italiano al Liceo, profonda conoscitrice della materia, ma soprattutto in grado di comunicare la sua passione agli alunni. Diceva che era diventata insegnante “per amore”, sapeva trasmettere questo amore agli studenti e coinvolgerli attivamente. Alcune sue lezioni erano addirittura emozionanti tanta era la bellezza. E non è certo un caso che ricordi molto bene la letteratura italiana studiata al Liceo, e che sia stata una delle mie materie preferite.
Purtroppo, la qualità di “amare trasmettere” è molto rara, anche in campo universitario. Le lezioni sono spesso prive d’anima, se così si può dire, mancano completamente di capacità di coinvolgimento, non offrono alcuno stimolo allo studente. La conseguenza è un apprendimento peggiore e molto più faticoso. La materia c’entra poco o niente con l’interesse che essa può suscitare negli studenti: lo stesso argomento, spiegato da due diversi professori, può arrivare in modi completamente diversi agli ascoltatori. Per questo concordo con de Bernard che è fondamentale scegliere i docenti in base alle competenze ma anche alla loro intensità emozionale.
L’empatia nel rapporto medico-paziente è parimenti importante. E anche questa, bisogna dire, latita, a giudicare dal modo in cui a volte alcuni malati vengono trattati. Lo studente deve imparare ad entrare in contatto col paziente dal punto di vista umano, per poterlo meglio comprendere anche da un punto di vista clinico. L’impressione che ho, anzi, è che la medicina si stia “dis-umanizzando”, cioè che per studiare la malattia perda di vista il malato. Esso deve invece rimanere il punto di partenza, se non si vuole andare verso una pericolosa deriva.
Riguardo a questo tema mi viene in mente un libro che ho letto di recente, “Le libere donne di Magliano”, di Mario Tobino, un medico che ha lavorato per buona parte della sua vita in manicomio e che in questo libro racconta la sua esperienza di vita a contatto con le malate. Ciò che mi ha colpito è, oltre al profondo rispetto e senso di pietà che egli ha per loro, la sua capacità di analizzarle prima di tutto umanamente, per svolgere al meglio la sua professione. Riporto un passaggio del libro:
“Un malato è diversissimo da un altro, anche se affetto dalla stessa malattia, ogni delirio ha le radici nella storia personale di quel solo individuo che lo dichiara, e, per esempio, il delirio di persecuzione del malato A è sempre diverso dal delirio di persecuzione del malato B ugualmente come A e B hanno avuto diversa madre, diversa infanzia, diversa educazione ecc.”
Sicuramente Tobino era un medico che aveva capito molte cose…
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